Un poco dell’anima del “bandito”


(lo non giudico, cerco di comprendere)



Sono passati oramai diversi mesi dalla tragedia. L’impressione tumultuosa dei primi giorni, già si è andata riposando nel nostro cervello; il dolore e la meraviglia hanno anzi in qualcuno già dato passo alla abitudine ed alla dimenticanza. Una tragedia di più si è venuta ad accumulare alle altre numerose che con frequenza hanno giorno. La vita di questi ultimi anni è così piena di delitti; il sangue ribelle ha corso a così larghi fiotti, che la notizia di una nuova tragedia non meraviglia né addolora coll’intensità che dovrebbe addolorare, quasi più e solo coloro che la vissero da vicino. Gli altri, la maggioranza, dopo aver lanciato uno sguardo affrettato se pure corrucciato, passato il primo momento, seguono nella loro vita monotona di tutti i giorni, perché a tutto ci si abitua e tutto presto si dimentica.

La vita deve continuare e continua inesorabile sopra tutti i nostri possibili dolori. Anche la tragedia di Buenos Aires passò, fulminea, mietendo quattro uomini, gettandone in prigione una infinità d’altri, e, scossa al primo momento, già l’attenzione di tutti è portata su altri fatti.

È l’inevitabilità della vita e della lotta.

Però, per i vicini, per coloro che sentirono il dolore come in carne propria, perché nel momento della lotta tutti i combattenti si sentono come fratelli, il ricordo, nonostante tutto, permane ostinato e allucinante, soprattutto se si è potuto vedere e comprendere oltre che la tragedia materiale anche quella, forse più profonda, morale, della vita di qualcuno dei protagonisti degli avvenimenti di Buenos Aires, e come è il caso di Severino Di Giovanni.

Come si svolsero i fatti, tutti oramai lo sanno, salvo forse per coloro che vivendo lontano dell’Argentina, non possono conoscere gli avvenimenti in tutti i loro dettagli, che hanno la loro importanza perché potrebbero contribuire a presentare la “vera” figura dei protagonisti non deformata né dalla passione di parte né dall’odio cieco e feroce dei nemici che come iene si sono gettate sul cadavere dei caduti per straziarli una volta di più.

Ma quello che più interesserebbe conoscere dopo la tragedia esteriore che tutti i giornali hanno raccontato, non sono tanto tutti i dettagli che culminarono negli avvenimenti del 29 gennaio-2 febbraio, quanto la tragedia interna vissuta durante diversi anni da questi uomini, che usciti dalla legalità e pur tutti giovanissimi ancora, misero a repentaglio tutto per seguire l’illusione della «vita intensa», che inevitabilmente li portò alla tragedia. Sarebbe interessante conoscere quella che potremmo chiamare «l’anima dei banditi», perché da questa forse verrebbe anche la comprensione se non di tutta la loro vita e la loro azione, almeno di una parte della prima, che fu oltremodo tormentata e dolorosa.


Non sono le caratteristiche fisiche che più ci importano, ma bensì quelle morali, perché sono queste che hanno influito su tutto il trascorrere degli avvenimenti, ed hanno portato là, dove inevitabilmente dovevano portarli, i protagonisti degli avvenimenti di Buenos Aires.

Parlerò d’uno di questi, di Severino Di Giovanni, che benché non lo abbia conosciuto personalmente, credo, nonostante alcune vedute profondamente opposte, d’essere uno fra quelli che meglio abbiano avuto occasione di vedere e studiare l’interno del suo animo, seguire da vicino il suo sviluppo intellettuale, e ricostruire, se pure retrospettivamente, tutte le fasi della sua tragedia, della sua vita di azione.

Severino Di Giovanni era un passionale; vedeva tutta la vita e comprendeva l’azione attraverso la sua passione tumultuosa che di frequente l’accecava, tanto se era portato al bene come al male. Gli era quasi impossibile mantenere l’equilibrio tanto necessario per giudicare come nell’agire, equilibrio pertanto indispensabile se non si vuol essere nella vita di tutti i giorni l’eterna vittima, sia oggi degli uni, sia domani degli altri. La sua ardente passione lo sballottava con frequenza da un estremo all’altro, mantenendogli tuttavia sempre desta la tenacia nella lotta come nella propaganda. Lui stesso un giorno scriveva ad un suo amico: «Col tempo meglio ci conosceremo e meglio ci comprenderemo e potrai così valutare i miei malumori, i miei gesti bruschi, le tempeste che si scatenano dal cuore ed impulsano il braccio fanno decidere la responsabilità e la mente». Ma qualche volta questo lo portava anche a quegli atti dolorosi, quelle azioni «irreparabili», che alla fine sono più una tragedia per chi li commette che per chi li subisce, se nel primo permane una coscienza. E Severino Di Giovanni annoverava nella sua vita, pertanto cui uno sicuramente fu fra i più dolorosi: la morte del direttore del giornale anarchico La Protesta, Lopez Arango.

Ho avuto occasione di esaminare in tutti i suoi dettagli questo episodio doloroso, studiarne le cause, rivivere un po’ l’aria malefica che non può generare che il delitto dell’ambiente elettrizzato in cui si generò, e vivissimo è ancora in me il dolore nel vedere come certe polemiche, veramente fratricide, possano portare qualche animo caldo, esaltato, a gesti orribili, come fu quello del Di Giovanni contro l’Arango.

Avendo a suo tempo espressa la mia convinzione, in un articolo apparso nell’Adunata, che «Certe pozzanghere di sangue erano più difficili da valicare che gli oceani», egli mi scriveva: «Tu non puoi comprendere la tragedia mia. Vera tragedia di chi visse giornalmente bandito dalla società e vituperato dagli anarchici... per bene! Solamente in contatto con me potresti comprendere e giustificare l’ira, il gesto, la ribellione contro certi “anarchici”. E non andare a credere che non ami i compagni, che sia vinto dal pessimismo Pallantiniano o dall’anticompagnerismo — scusami queste parole occasionali — perché ti sbaglieresti in grande. Chi mi conosce intimamente può sapere di quanto amore sia corazzato l’animo mio. È ancora questo che sa scavare il precipizio, il baratro tra me, la spia o il calunniatore, non altro: perché solo chi sa tanto amare sa tanto odiare».

E dopo questo tentativo di mettere a nudo la sua anima, che visse in una eterna tragedia, perché, come vedremo più avanti, tutta la sua intima aspirazione era di poter seguire una vita di studio, di ricerche e di arricchimento nel campo del pensiero, mentre invece era portato, per una lunga concatenazione di fatti, nella vita di tutti i giorni, a darsi alla lotta più accanita — subendo una nuova oscillazione dal basso all’alto, poteva scrivere: «Come sogno delle volte, negli ozi che mi obbliga la vita attuale, in un mondo nostro tutto di armonia: ogni tendenza riposante nelle proprie iniziative, senza mai urtarci, senza mai annientarci per essere più forti nel domani quando dovremo correre tutti alle grandi battaglie della rivoluzione. Ma sono sogni...!». Qualche parola ancora prima di concludere su questo squarcio della vita del nostro compagno, perché è indubbiamente questo l’episodio che più lo straziava e che lo seguiva quasi come una ossessione, tanto che non poteva farci a meno di accennarne in ogni sua lettera. Dopo la pubblicazione del mio scritto, apparso nell’Adunata di molto tempo fa, ed a cui già accennai, su la “Morale anarchica o morale da selvaggi” ed in cui rispondevo ad alcune affermazioni del compagno Cassio, egli ancora mi scriveva: «Lessi nell’Adunata la tua sulla morale dei selvaggi. Ti parlo francamente così ci intenderemo di più e ci ameremo meglio. Tu non hai compreso il fine della frase di Cassio — un compagno che non conosco e che molti hanno scambiato per uno pseudonimo mio — lui si meravigliava come, fatti come quello in questione, non succedano più spesso, dato le tante campagne di assassinio morale contro dei nostri amici migliori: Nino Napolitano, Tintino Rasi, Schiavina, Merinero (Lopez) ecc. ecc. Era una meraviglia che non costituiva apologia, ma rimaneva semplicemente nel campo delle... meraviglie. Farne dell’apologia? A quale fine? Non è forse responsabile il compagno assassinato moralmente di quale attitudine deve prendere? Non tutti possono vedere le cose da un unico • aspetto».

Ed in un’altra lettera sempre sul medesimo argomento ed a proposito della questione già citata, ma che viene molto bene a rischiarare il suo pensiero oltre che il suo stato d’animo, scriveva: «Debbo dirti che io non sono una persona che mi si possa influenzare con il gettarmi “paglia sul fuoco”. Ho una linea di condotta — barbara ed intransigente in certi casi — che ben pochi possono farmi deviare. Non rifuggo la discussione, anzi la cerco, ma non agisco se non colla più ferma delle convinzioni. Non mi molesta la critica sana, quando è giusta, ma insorgo contro chiunque sia, quando questa critica cercano di travisarla e trascinarla sul cammino della calunnia e della mala fede. Ed insorgo con tutta la forza del mio essere. Non tollero la spia, neppure quando si incontra sul più atto degli altari, dove l’hanno posto l’idolatria dei... compagni, e dato il mio temperamento colpisco in maniera che può sembrare dura, ma che riflettendo non lo è. Dal cammino scelto non ritorno indietro se non nel caso che mi accorga di sbagliare o che chi vi si è posto di traverso riconosca il male fatto».


Un altro lato della personalità del Di Giovanni, una delle attitudini sue preferite nella lotta contro la società attuale, era l’illegalismo. A questa sua attitudine aveva cercato di dare una base ideologica, una ragione più profonda che la necessità, la grande causa generatrice di innumerevoli tragedie, quella che il più sovente spinge un uomo sulla via dell’espropriazione o del delitto.

Per lui, come per molti altri, questa era una attitudine non solo di lotta, coi suoi benefici e pericoli, ma bensì uno dei mezzi più atti ad incamminare gli uomini e le cose verso l’espropriazione generale: la rivoluzione.

lo non voglio entrare, ora, nel cuore di questa discussione che mi porterebbe troppo lontano e fuori argomento, anche perché, quello che io possa pensare su questo o quell’argomento non entra attualmente in discussione. lo cerco solo di seguire il pensiero del compagno di cui parlo per comprendere meglio quella che fu la sua vita, e non è mia intenzione di giudicare né atti né cose, ma solo di «comprendere», di scoprire quello che fu il sentimento, l’anima del caduto. E per arrivare a questo, che cosa migliore di quanto Severino Di Giovanni può aver scritto, non nei giornali, ma nelle sue lettere, in cui l’anima è più facilmente messa a nudo? In una sua lettera, scritta ad un comune amico, dice: «La tua ultima lettera mi ha fatto piacere, come sempre mi fanno piacere quelle lettere che mi giungono da compagni buoni. E, intanto che siamo in tema di affettuosità ci tengo a dirti che l’Albigese di Eresia e di Anarchia sono io. Inutile dirti che sulla via della cortesia accetterò con te qualsiasi polemica. lo credo sempre l’espropriazione un tema fondamentale dell’anarchismo e dell’anarchico. Scarto sempre il furto volgare. Non mi riguarda e non mi interessa. lo sono un apologista dell’espropriazione a fine anarchico e difendo l’anarchico che espropria.

Quando costui — vittima dell’oro — diventa nei concetti e nelle azioni un borghese, lo ritengo semplicemente un borghese e non mi interessa più quello che è stato nel passato. Queste sono le mie concezioni fondamentali sull’espropriazione e l’anarchismo».

Sull’argomento e per le confidenze che ci fa in questo brano di lettera vi sarebbe argomento per scendere profondo nella discussione e per andare a rovistare nella carta vecchia, quale era, nei dettagli, la sua concezione sull’espropriazione. Sarebbe forse una cosa utile ma per il momento non ci servirebbe a niente altro che a fuorviare il nostro esame.

Era necessario per la verità e la comprensione della personalità dello scomparso marcare questo punto, e lo abbiamo fatto. Ma secondo me ve n’è un altro ben più importante ed anche più caratteristico, ed è quello che andremo esaminando, seguendo sempre la sua corrispondenza che in questo caso è lo specchio più fedele della sua «anima».

Più innanzi dissi che la vita di Severino Di Giovanni fu una continua tragedia, perché tutta la intima aspirazione lo portava verso lo studio, mentre la vita di ogni giorno lo costringeva oramai alla lotta cruenta che non permette sempre di seguire lo studio. Convinzione questa che mi sono andato facendo nell’esaminare la sua vita e la sua azione, ma soprattutto nel vedere tutto il suo cuore sanguinante che sta in una copiosissima raccolta di lettere sue, inviate ad un amico, e che in questo momento ho sotto gli occhi.

Scriveva: «Riguardo a quanto tu mi dici per le edizioni, tu osservi bene e riconosco che i tuoi consigli sono buoni. Ma vorrei esporti tutte le mie idee ed allora vedresti la loro vastità. Noi italiani all’estero dobbiamo far rivivere •tutte quelle iniziative che in Italia erano l’ambizione del nostro movimento. Il libro è una di queste iniziative. I compagni che possono devono dare tutto per la buona riuscita. Vedrai che il mio sogno si realizzerà. È da anni che penso di raccogliere in volume gli Scritti Sociali dei diversi compagni scomparsi, e non scomparsi anche, e che rimangono tutt’ora sparsi in rare pubblicazioni. Leggere Reclus, Ciancabilla, Malatesta, Merlino, Flores, i due Molinari, Galleani, Fabbri, per non parlarti che di alcuni fra quelli che io penso raccogliere; deve essere qualche cosa di cui i compagni non mancheranno di riconoscere il valore. Ed una collana di scritti sociali non rimarrà solamente nel campo italiano, ma andrà — come nel caso del Reclus — anche nel campo Francese, Inglese, Spagnolo, Tedesco, Russo. Insomma il pensiero anarchico visto sotto il poliedrico prisma delle diverse individualità».


***


E i suoi progetti erano grandiosi. Possedeva l’entusiasmo del neofita e la volontà dell’uomo cosciente delle grandi necessità di una vasta diffusione del nostro ideale. A volte, pareva che lo scrivente le lettere, fosse un uomo che, preoccupato solo del movimento intellettuale, fosse staccato dalla vita terrestre, o che questa almeno l’interessasse poco, mentre la realtà noi la sappiamo differente.

È in questa contraddizione che mi pare sia racchiusa la sua tragedia morale. Le cose e gli uomini l’avevano spinto sopra una strada ch’egli seguì perché ne era costretto, ma che nel suo profondo sentiva non essere la sua.

Così esponeva un giorno, verso la fine dell’anno scorso una parte del suo piano editoriale: «Nuove idee mi sono sorte nella mente in riguardo alle edizioni delle opere del Reclus. Dopo la corrispondenza, che sarà il quinto volume, voglio — se sarà possibile per le necessità che ho della collaborazione intellettuale — pubblicare i seguenti capitoli del sesto volume de l’Uomo e la Terra, in tanti libri, come: Capitolo 7. “Lo Stato Moderno”; 8. Coltura e Proprietà; 9. Industria e Commercio; 10. Religione e Scienza; 11. Educazione; 12. Progresso. Ognuno di questi sei libri forma un problema interessantemente sviluppato. Tutti e sei formano il migliore svolgimento dell’altro libro: Evoluzione, Rivoluzione e l’Ideale Anarchico, e credo che con essi si può fare la migliore affermazione ed esposizione del pensiero di Eliseo Reclus. Che ti sembra? Tanto più che sarebbe la migliore maniera per incominciare a far conoscere quello splendido lavoro che è L’Uomo e la Terra. Certo, a mio parere almeno, cadauno dei sei libri tratta un tema isolato che ben si può diffondere e propagare senza pregiudicare l’insieme dell’opera maestra. Tu, in tutti i modi, consigliami e dammi tutti quegli schiarimenti che ti sembrano utili alla buona riuscita dell’iniziativa».

Ed in un’altra lettera, di qualche giorno più vecchia, egli precisava ed ampliava ancora il suo disegno di arricchire il movimento anarchico di lingua Italiana di una iniziativa editoriale importante. «Ti avevo parlato in altri tempi quali erano i miei pensieri in proposito: diffusione, senza settarismo, di tutto ciò che è forza e pensiero in pro delle idee anarchiche e sovversive in generale con il riflesso in favore del nostro movimento (esempio, il libro del Remarque, una selezione di scritti del Broufaux, Multatuli, ed altri). In linea generale questo.

Ora dettagliando, questo è ciò che penso realizzare:


I. — I LIBRI

Eliseo Reclus:

1. Scritti Sociali (quattro volumi) – 2. Epistolario scelto (I Volume). – 3. Lo Stato Moderno – 4. Coltura e Proprietà. – 5. Industria e Commercio. – 6. Religione e Scienza. – 7. Educazione. – 8. Progresso.

Nino Napolitano: Contributi Stirneriani.

G. Ciancabilla: Scritti Sociali...

Remarque: Nulla di Nuovo all’Ovest.

Emile Armand: L’Iniziazione Individualista Anarchica.


II. — QUADERNI (60 pag. approssimativamente, medesimo formato dei libri).

Errico Arrigoni: Il diritto all’ozio.

Uno di Hans Ryner: di Rafael Barret; Riccardo Mella; Sebastian Faure.


III. — OPUSCOLI (16 a 32 pag. formato dei libri)

1.Lavori non conosciuti in Italiano.

2.Lavori espressamente fatti per le edizioni nostre.

3.Lavori importanti usciti nei nostri giornali.

4.Lavori di attualità.


Frattanto però la reazione Argentina si faceva ogni giorno più pesante e qualsiasi lavoro di propaganda quasi impossibile. Non solo nell’interno della repubblica la pressione delle caste militari al potere si faceva sentire con tutta la tracotanza di costume a questi signori, ma anche su tutto quanto proveniva dall’estero. Tutta la corrispondenza era aperta e quella sospetta sequestrata, rendendo così oltremodo difficile qualunque relazione •fra compagni residenti nell’Argentina e quelli trovanti all’estero, e che potevano aiutarli nella loro opera di propaganda e di agitazione. Datata dei primi del gennaio (1931), leggo una lettera che dà un po’ l’idea delle difficoltà che si incontravano onde sviluppare un lavoro qualsiasi: «Ho vissuto tre giorni d’inferno. Credimi, non ho sofferto che poche volte in vita mia come in questi tre giorni. La notizia che ebbi dello smarrimento di quasi tutti gli originali degli Scritti Sociali, fuorché quello della Pena di Morte, dello smarrimento del prezioso opuscolo su Elia e tre numeri del Pensiero contenenti la traduzione italiana. Dei tre numeri avevo staccato le sole pagine che bisognavano, e lo smarrimento, oramai irreparabile degli originali e delle prove di linotype del libro di Nino Napolitano: Contributi Stirneriani. Un inferno morale come vedi». E di questi “inferni morali” la vita clandestina di tutti i militanti Argentini è piena, perché le difficoltà si sono andate sempre più aggravando dal giorno (6 settembre 1930) della installazione della dittatura militare. Ad ogni modo tutte queste difficoltà rendevano impossibile qualunque movimento, qualunque iniziativa, non solo, ma mettevano in serio pericolo la vita stessa di chi intendeva fare. Ma come tacere? «Se tu sapessi tutti gli incidenti, scriveva ad un suo corrispondente, e tutte le difficoltà che vado incontro per stampare il giornale!? Col nuovo indirizzo tutto sarà risolto. Qui tutto è silenzio e... paura. Uriburu e Hermelo non scherzano! Ma è da noi di rimanere in silenzio? Come possiamo rimanere impassibili? La nostra opera rivoluzionaria non deve rimanere interrotta per nessun motivo...».

«Lo spettacolo rivoluzionario di questo paese dà la malinconia! Ed il soffio non è stato veramente tanto disastroso. Se hanno vinto la colpa in parte deve prendersela anche il nostro movimento. Che spettacolo di “si salvi chi può”.

Anarchia fu quasi l’unica manifestazione di vita che si è avuta. Persi inutilmente due settimane in riunioni, e non si venne a nessun accordo. Ciò che mancò fu l’impulso, l’audace tentativo della... collettività. Hanno disingannato tutti, e tutto si è dissolto nel nulla. Il terrore è ciò che è rimasto nel posto dei nostri. Non un gesto, solamente qualche sporadica protesta, poi, più nulla. Nulla, una parola che scende gelida sulla nuca lasciandoci una grande sensazione di impotenza. Ma rimane in piedi accanto a noi la grande speranza che ci farà rammainare le vele rotte e puntare verso nuovi lidi. Ti ricordi quel bel periodo della lettera di Malatesta? Ebbene in noi, pochi veramente, non ci spinge innanzi altro che la speranza, la nuova speranza».

Quasi siamo alla conclusione della tragedia. Meno erano i militanti, rimasti in libertà, più era facile alla polizia di individualizzare quelli che continuavano nella lotta, e quelli a cui a lei premeva la cattura. Alcuni attentati terroristici precipitarono gli eventi. Un po’ per l’aureola di coraggio che lo attorniava, un po’ perché la polizia non arrivava mai ad arrestare gli autori di quanto succedeva a Buenos Aires, da qualche tempo tutto quanto succedeva in questa città veniva attribuito a lui. La polizia, onde tranquillizzare l’opinione pubblica, ma soprattutto per le pressioni che gli uomini del nuovo governo le facevano, onde poter dare così, seppure una vernice passeggera, alla utilità della dittatura militare e della legge marziale da essi installata, si diedero con ogni mezzo a catturare qualcuno che le potesse servire di capro espiatorio. Severino Di Giovanni era, in questo senso, la preda migliore.

Il 29 gennaio, mentre Severino Di Giovanni usciva dalla tipografia dove si stampavano alcuni libri di sua edizione, veniva assalito da un gruppo di poliziotti che lo aspettavano e che senz’altro gli fecero fuoco addosso. Quello che ne seguì tutti oramai lo sanno. Il suo tentativo di fuga, il suo inseguimento ed il suo arresto e, il primo febbraio, la sua fucilazione, conclusione della tragedia.

Proprio il giorno in cui veniva fucilato, la domenica 1 febbraio, un compagno riceveva questa ultima sua lettera, scritta qualche giorno prima del suo arresto.

Eccola integralmente: «Caro: Ancora non è partito il pacchetto. Dopo l’invasione al piccolo locale della... non so più a che persona consegnare la nostra corrispondenza. Questa te la mando con la persona che più si presta. Vedi se tu puoi farmi conoscere un mezzo più sicuro. Questa sera il tipografo mi ha consegnato l’ultima prova del terzo volume e quella del Quaderno n. 1 di Arrigoni. Il secondo quaderno sarà quello contenente la conferenza di Hans Ryner che tu hai tradotto. Uscirà contemporaneamente al volume. Per il giornale ancora un ritardo e non per colpa tutta nostra. Qui le cose stanno serie, ma seguiteremo lo stesso il cammino intrapreso. Dopo gli avvenimenti di Bahia Blanca, di Santa Fé, abbiamo quelli di Buenos Aires. Ci stringono la vite! Che fare? Il pessimismo non è un’arma dell’ora...

Scrivimi subito appena ricevuta la presente, saluti tuo...».

Fu questa lettera e le brevi dichiarazioni fatte al processo in cui lui pure cercò di sdoppiare la sua personalità, le ultime espressioni della sua vita, e queste vengono proprio a completare il quadro da noi brevemente tracciato. Indubbiamente la sua vita come la sua azione sono difficili ad essere comprese, da qualcuno che le osservi troppo superficialmente e dimentichi il punto di partenza di tutto: l’isolamento in cui è stato cacciato dalla legge e da qualche compagno. Egli stesso, in un brano di lettera già citato ma che merita d’essere nuovamente rilevato, scriveva: «Tu non puoi comprendere la tragedia mia. Vera tragedia di chi visse giornalmente bandito dalla società e vituperato dagli anarchici». Perché un momento compresa questa prima situazione, per un tipo passionale come abbiamo potuto constatare che era il Di Giovanni, tutto il resto si comprende facilmente perché segue una linea logica, sia pure barbara come lui stesso scrisse, ma sempre logica.

Comprendere!

Eliseo Reclus scrisse: «Comprendere per scusare». Ed è quello che cerchiamo sempre di fare noi, eliminando però le apologie quasi sempre inutili, se non nocive, soprattutto davanti alla complessità dei fatti in cui Severino Di Giovanni si è dibattuto e che hanno seguito gli alti e bassi della sua coscienza e della sua passione.


Hugo Treni [Ugo Fedeli]


(l’Adunata dei Refrattari, anno X, n. 25 e n. 26, 11/7-18/7/1931)

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