L’omaggio di Galleani a Ciancabilla dopo la sua morte
Dopo aver dato sul n. 39 del 24 settembre 1904 l'annuncio della morte di Giuseppe Ciancabilla —ricordando «il ciclone di livori settari che l'ha involto avvelenandogli fino agli ultimi giorni il pane, spezzandogli coll'energia l'avvenire e la vita» ed invitando tutti gli anarchici ad unirsi al lutto, anche quelli responsabili «di avere quell'energia fiaccato, di avere colla persecuzione affrettato di quell'intelligenza, di quella attività il tramonto» — Cronaca Sovversiva, il giornale di Luigi Galleani, pubblicò due settimane dopo questo testo dell'anarchico appena scomparso, non incluso nella nostra antologia.
Le mistificazioni del socialismo collettivista
Premetto che parlerò nella forma più popolare e più semplice possibile, perché tutti riescano a capire le idee che butto giù alla meglio.
Sentite. Se proprio come farò adesso accadrà in seguito che io acchiappi i socialisti parlamentari-collettivisti della Marianna francese (Marianna, per quei che non lo sanno, è la repubblica) in flagrante delitto di mistificazione e di bestialità, non è mica perché io ora passeggio le stesse strade che quei signori passeggiano e respiro l'aria ch'essi pure respirano.
No, ma perché in Italia il partito socialista-democratico è stato fabbricato da un gruppo di furbacchioni, i quali, vedendo che all'estero, in Francia, in Germania, nel Belgio, il cosiddetto partito socialista era un ottimo espediente per crearsi una situazione politica ed economica (come la loro tattica, precisamente) decisero di metter su a Milano un bel magazzino, uso fratelli Bocconi, di socialismo elettorale.
Perciò, siccome in Italia quei signori continuano ancora in tutte le occasioni, ogni volta che devono fare un passo, o prendere una decisione qualunque, o fulminare qualche eretico, o magari soffiarsi il naso, a citare sempre l'esempio dei socialisti francesi o tedeschi o di qualche altra parte del mondo, come i santi padri e le autorità infallibili della futura rivoluzione legale, così io credo utile di servire in tavola a quei signori ed anche ai nostri compagni tutte le corbellerie che a quei pontefici del socialismo elettorale internazionale scappano dalla penna o dalla bocca.
E questa volta poi si tratta di un pezzo grosso, di un certo Gabriele Deville, deputato a Parigi, che i socialisti di Milano citano ad ogni occasione, di cui hanno tradotto e pubblicato opuscoli e libri, che insomma è proprio un'autorità costituita. Questo signor Deville pronunziò giorni fa alla Camera francese un discorsone proprio coi fiocchi. E siccome si stava discutendo delle classi agricole e della proprietà campestre, il nostro deputato parlò della proprietà in genere.
Dunque questi signori socialisti ogni qualvolta discutono con gli anarchici si affrettano a dire che, salvo quella piccola questione di tattica, della partecipazione alla lotta elettorale, poi infine si è tutti d'accordo nel volere... la stessa cosa. Che impostori! Sentite un po' quel che dice Deville, uno dei padri eterni del socialismo così detto scientifico, uno degli evangelisti della bibbia collettivista. Parlando della proprietà individuale egli se ne esce fuori con queste massime veramente d'oro:
«Noi non vogliamo la soppressione della proprietà individuale, come non vogliamo la realizzazione di questa proprietà a beneficio degli uni e a danno degli altri».
E più appresso:
«Noi vogliamo conservare questa proprietà a coloro che l'hanno ancora, noi vogliamo renderla a quei che l'hanno perduta, noi vogliamo darla a quei che finora ne sono stati privati».
Ma... o io non ci capisco niente, o il signor Deville e i suoi colleghi vogliono quello che è stato sempre considerato come la più stupida accusa in mala fede fatta dai borghesi ai socialisti ed agli anarchici, cioè la ripartizione in parti uguali del suolo e dei mezzi di produzione. Ma ciò è così enorme e così cretino, che non mi pare possibile possa essere stato concepito da un Deville. E allora bisogna riconoscere che egli abbia inteso di ammettere la conservazione della proprietà individuale, così com'è ora, senza tante parti uguali: chi ne ha più ne abbia più, chi ne ha meno ne abbia meno, chi non ne ha niente... faccia alla meglio.
Infatti, nel seguito del suo discorso il signor Deville fa una comoda e opportunistica distinzione (vi dirò dopo perché opportunistica) fra proprietà individuale e proprietà capitalistica. Egli dice che proprietà individuale è soltanto in certo modo il possesso di una quantità di mezzi di produzione sufficiente ai propri bisogni, e che non permettono lo sfruttamento di altri individui. Ora, sapete voi conciliarmi l'idea di una proprietà, piccola o grande, qualsiasi, senza l'idea dello sfruttamento?
Chi potrebbe impedire in una società così costituita, dove, secondo lo stesso Deville, la proprietà individuale sarebbe alla portata di ciascuno, nel modo più completo, che un fannullone trovasse, mediante un compenso, chi compisse una parte del suo lavoro? Chi potrebbe impedire a un individuo bramoso, per quella smania di accumulazione e d'ingrandimento che è caratteristica di tanti esseri, di possedere il necessario ed il superfluo, di mettere il suo tempo libero al servizio di un altro, mediante retribuzione? E lo stesso Deville, contraddicendosi poi in seguito, riconosce questo, quando sottilizzando sulla proprietà individuale dice che essa è possibile e permessa quando «pure essendovi possesso sufficiente per occupare dei salariati» (udite! udite!) è però insufficiente «per dispensare dal lavoro il possessore stesso. In questo caso non si ha a che fare con un vero capitalista, e questo possessore non è più, secondo la stessa espressione di Marx, che un essere ibrido, una cosa intermedia tra capitalista e lavoratore, un piccolo padrone».
Ed è questo essere ibrido, questa cosa intermedia, questo «piccolo padrone» che i collettivisti, per ragione di opportunismo elettorale come vedremo poi, vogliono conservare nel loro regime ultra borghese. Ha un bel raccontare il signor Deville che Marx dice «Non ogni somma di valore o di moneta può essere trasformata in capitale». In primo luogo non è già detto che Marx abbia esposto delle teorie infallibili. Tutt'altro! e già alcuni degli stessi socialisti in buona fede constatano oggigiorno l'insufficienza e la stessa assurdità di molte e molte teorie marxiste ritenute sin qui come dogmi incrollabili. Ma a parte questo, è così chiaro, è così semplice il riconoscere che in un regime dove esistesse la proprietà individuale, per quanto piccola e limitata, e fosse permesso una forma di sfruttamento e di salariato qualunque, basta qualunque piccola «somma di valore o di moneta», come dice Marx, per permettere l'accumulazione di maggior quantità di valore o di moneta, e raggiungere infine la forma moderna del capitale, anche secondo il concetto grandioso del Deville, che considera come capitale solo la grande proprietà. Datemi un individuo abile, furbo, speculatore, tenace, coraggioso e da due soldi egli riuscirà ad accumulare il milione. Leggete il libro Volere e potere dello Smith, leggete i volumi di Franklin, e avrete la dimostrazione pratica dell'origine dal nulla di tante fra le più colossali fortune del mondo. Come si può essere nemici della proprietà capitalistica e conservatori nello stesso tempo della piccola proprietà? Come e chi potrà impedire la concentrazione, quale ora si effettua nella società attuale, delle forze vitali di un paese nelle mani di una minoranza di abili privilegiati?
Perciò di fronte alle ironie borghesi dei socialisti-collettivisti, gli anarchici debbono opporre il dilemma vero, dal quale non si può uscire, o proprietà individuale qualunque essa sia, grande o piccola, e per conseguenza sistema borghese, sfruttamento, salariato, accumulazione di capitali, privilegi dei pochi, schiavitù dei più, e tutto il resto; o proprietà comunistica, non ripartita, di tutti e di nessuno insieme, che permetta la realizzazione della nostra formula libertaria: «da ciascuno secondo le proprie forze, a ciascuno secondo i propri bisogni».
Del resto, non dal solo punto di vista comunista-anarchico, ma secondo il più elementare criterio della ragione e della logica è facilissimo confutare le teorie collettiviste del signor Deville e compagni di Francia e di fuori.
In primo luogo, quale sarà il limite che si vorrà assegnare alla piccola proprietà? Fino a quale quantità sarà permesso questo possesso individuale? Come si faranno le ripartizioni del suolo e dei mezzi di produzione? Come saranno tracciate le linee di confine, e qual garanzia ci sarebbe a che esse non fossero violate da uno più forte ai danni di uno più debole?
Se si tratterà di dividere la terra, quali elementi serviranno di base a questo frazionamento? Si partirà dal criterio dell'estensione e della superficie? No, certo; perché tutti sanno bene che venti ettari di terreno incolto e arido rappresentano un valore inferiore ad un ettaro di terreno fertile e coltivato. Il terreno di montagna vale infinitamente meno del terreno di pianura per la sua inferiore produttività.
Dunque il criterio dell'estensione e della superficie no. Bisogna dunque trovare qualche altra cosa. Forse il valore della terra? Ma tutti comprendono le immense difficoltà di questa impresa. Chi sarà l'infallibile giudice estimatore di questo valore? E chi potrà garantire che delle ingiustizie e dei favoritismi non siano commessi? E quante decine di anni esigerà questa perizia interminabile, che poi si modificherà ad ogni fenomeno climatico, ad ogni accidentalità di inondazioni, terremoti, grandinate, piogge e ogni altra specie di disastri naturali?
Porto un esempio pratico. Supponiamo che in un comune rurale due contadini posseggano due vigne di uguale valore. Queste vigne sono state ambedue colpite dalla filossera. Uno dei contadini si è messo coraggiosamente all'opera, ed ha guarito e rifatto completamente la sua vigna restituendole il valore che prima aveva. L'altro invece non ha voluto troppo incomodarsi; è rimasto lì, colle braccia conserte di fronte al disastro, e quindi la sua vigna non ha alcun valore. Che cosa accadrà dunque? Che all'avvento del regime collettivista, il primo contadino avrà la vigna socializzata perché quel terreno ha un valore reale e fa di lui un piccolo capitalista; l'altro invece rimarrà possessore della sua vigna, per il momento improduttiva, ma che domani curata e ricostituita, avrà un valore simile a quella del primo contadino che ha perduto la sua proprietà, mentre il secondo la conserverà. Un bel sistema, logico ed equanime, come vedete!
Ma vi è di più. Siamo sempre in regime collettivista. Che tempi beati, non è vero? Dunque, appena i signori collettivisti saranno al potere, perché essi vogliono veramente conquistare il potere, come vedremo poi, i grandi proprietari saranno espropriati a vantaggio, concediamo pure, dei nullatenenti. Accanto a questa proprietà collettiva rimarranno i piccoli proprietari, i quali dovrebbero naturalmente godere della libertà individuale più completa, sempre secondo i signori collettivisti, perché io non ci metto proprio nulla del mio. Ammessa dunque questa assoluta libertà individuale, il piccolo proprietario dovrà esser padrone, per conseguenza, di affittare, vendere, trasmettere in eredità il suo piccolo possesso, non è vero? Ma... e allora? Come s'impediranno le accumulazioni di possesso, di prodotti e di capitale? E se la piccola proprietà è lasciata in eredità a dei fanciulli incapaci di sfruttarla? Chi prenderà le loro veci? E se il piccolo proprietario vuol vendere la sua proprietà ad altri, godersi il frutto della cessione, gli sarà poi permesso d'entrar a godere dei vantaggi dell'unione collettiva? E a colui che acquistò la piccola proprietà sarà permessa l'accumulazione, l'ingrandimento del possesso?
Per impedir questi inconvenienti il governo collettivista dovrà necessariamente impedire al piccolo proprietario queste tre cose: affitto, vendita e trasmissione in eredità del suo possesso. Ma allora, dove se ne va la tanto decantata libertà individuale assicurata a ciascuno, estesa a tutti nel modo più completo?
È inutile tentare di sgusciar di mano, come le anguille, miei cari collettivisti. Da questo dilemma non si scappa. O istituzione di una forma di governo colle sue leggi, i suoi decreti, le sue autorità, la sua forza (poiché non c’è governo senza una forza che lo difenda, giacché in ogni governo più liberale vi sarà sempre una minoranza d'insoddisfatti, di frementi indagatori del meglio) e quindi niente completa libertà individuale; o soppressione di ogni qualunque forma di proprietà, grande o piccina, estesa o ristretta, individuale o capitalistica.
E per riassumere il sin qui esposto, mi par bene fissare i due punti fondamentali del programma dei socialisti-collettivisti-parlamentari:
1. Conservazione della proprietà individuale, di cui, come ho dimostrato, nessuno potrà precisare e assegnare il limite, dirò così quantitativo, il sino a quanto, che, nel doversi estendere a tutti, se tutti la reclamassero, permetterebbe una ingiusta e ineguale ripartizione, e vincolerebbe nel modo più ristretto la libertà del possessore, incatenato in eterno al suo possesso, pena la perdita di esso.
2. Conservazione, sia pure in forma limitata, del salariato, ossia continuazione dello sfruttamento odierno dei meno sui più e facile possibilità di accumulazione di ricchezze sotto qualunque forma di buoni di lavoro, di moneta, di mezzi di produzione, di prodotti, e, per conseguenza logica e necessaria, creazione di privilegi, di autoritarismo, di dominio, di prepotenze, di tirannie.
Il bis infine identico, preciso, esatto dell'odierna società borghese.
Giuseppe Ciancabilla
(Cronaca Sovversiva, anno II, n. 41 del 8 ottobre 1904)