La guerra servile, 1859



Un pugno di free soiler ha appena tentato un sollevamento di schiavi alle frontiere della Virginia e del Maryland. Non hanno vinto e sono morti, ma almeno sono morti combattendo; hanno seminato nel solco della disfatta la futura vittoria. John Brown, che ha combattuto in precedenza in Kansas, dove uno dei suoi tre figli è stato ucciso dagli schiavisti mentre gli altri due sono appena morti al suo fianco; John Brown è lo Spartaco che chiamava i moderni iloti a spezzare i loro ferri, i neri a prendere le armi. Il tentativo è fallito. I neri non hanno risposto numerosi all’appello. La bandiera della rivolta si è accasciata nel sangue di coloro che la portavano. Questa bandiera era quella della libertà, ed io la saluto! […]

Brown è un eroe fanatico, un caloroso abolizionista che cammina verso la realizzazione dei suoi progetti senza consultare ponderatamente le cause di successo e di insuccesso. Più uomo di sentimento che di conoscenza, tutto preso dall’impetuosa passione che lo infiamma, egli ha giudicato il momento opportuno, il luogo favorevole per agire, ed ha agito. Certo! non sarò io a biasimarlo. Ogni insurrezione, foss’anche individuale, foss’anche vinta in precedenza, è sempre degna dell’ardente simpatia dei rivoluzionari, e ne è tanto più degna quanto più è temeraria. Coloro che oggi rinnegano John Brown ed i suoi compagni, o li insultano con la loro bava: — i facitori di banalità abolizioniste che mentono l’indomani alle loro tiritere della vigilia, dovrebbero almeno avere il pudore delle labbra, in difetto del cuore che non hanno […]

Esaminiamo i fatti e traiamone gli insegnamenti.

Affinché una insurrezione riesca negli Stati schiavisti, è sufficiente l’iniziativa di alcuni entusiasti abolizionisti liberi e bianchi? No. Occorre che l’iniziativa venga dai neri, dagli schiavi stessi. L’uomo bianco è sospetto all’uomo nero che geme nell’ilotismo e sotto la frusta dei bianchi, suoi padroni. Negli Stati sedicenti liberi, l’uomo di colore viene guardato come un cane; non gli è permesso andare né sui mezzi pubblici né a teatro né altrove, se non in un angolo riservato: è un lebbroso nel lazzaretto. L’aristocrazia bianca, l’abolizionista del Nord lo tiene a distanza e lo rifiuta con disprezzo. Non può fare un passo senza incontrare pregiudizi imbecilli, assurdi, mostruosi che gli sbarrano il cammino. L’urna elettorale, come il mezzo pubblico, come il teatro ed il resto, gli è vietata. È privato dei suoi diritti civili, trattato in tutto e dappertutto da paria. L’uomo nero degli Stati schiavisti sa tutto ciò. Sa di essere materia e posta in palio di ogni genere di intrigo; che l’abolizionismo, per i padroni del Nord, gli sfruttatori di proletari e di elettori, i proprietari di schiavi bianchi, vuol dire benefici industriali e commerciali, nomine agli impieghi pubblici, stipendi di Stato, piraterie e sinecure. Quindi diffida a ragione dei bianchi; cosicché i buoni, quelli che sono sinceramente fraterni, patiscono per i cattivi. E poi, questa libertà alla quale generalmente lo si esorta, qual è? La libertà di morire di fame... la libertà del proletario... Così mostra poca sollecitudine a mettere a repentaglio la propria vita per ottenerla, sebbene la sua vita sia delle più miserabili e la libertà sia il suo più grande desiderio. Molti negri, del resto, sono tenuti in una così profonda ignoranza ed una così rigorosa prigionia, che non sanno neppure ciò che accade qualche miglio più in là della piantagione dove sono ammassati, di cui scambierebbero i limiti per i limiti del mondo!... Il tentativo di John Brown ha questo di buono, che il racconto lo porterà di eco in eco fino alle capanne più lontane, scuoterà il temperamento di indipendenza degli schiavi, li disporrà alla sedizione, e sarà un agente di reclutamento per un altro movimento insurrezionale. Ma il sollevamento di Harper’s Ferry ha un torto, e un torto grave: di essere stato di una generosità insensata, allorquando era padrone della situazione; di aver risparmiato la vita ai malfattori legali; di essersi accontentato di fare dei prigionieri, di prendere degli ostaggi, invece di mettere a morte i piantatori che aveva sotto mano, i trafficanti di carne umana, e di aver così dato ostaggi alla ribellione. La proprietà dell’uomo da parte dell’uomo è un assassinio, il più orribile dei crimini. In simili circostanze, non si parlamenta con il crimine: lo si sopprime! Quando si ricorre alla forza delle armi contro la violenza legale è per servirsene: non bisogna aver paura di versare il sangue del nemico. Fra schiavi e padroni, è una guerra di sterminio. Bisognava portare prima il ferro e poi, in caso di scacco, il fuoco su tutte le piantagioni. Bisognava — vincitori — che non un solo piantatore — vinto —, non una sola piantagione rimanesse in piedi.


Joseph Déjacque


***



John Brown, 1867



John Brown era uno di quei rudi lavoratori americani la cui educazione senza una società libera rende idonei alle occupazioni più diverse. Cresciuto come cacciatore nelle foreste dell’Ovest, si fece successivamente conciatore, pastore, mercante di lane, fattore; spesso cambiò anche residenza, abitando di volta in volta in Connecticut, nell’Ohio, nello Stato di New York, in Pennsylvania, e nei suoi viaggi commerciali attraversò pure l’Atlantico per visitare l’Inghilterra, la Francia e la Germania. Ritornato dall’Europa nel 1849, si stabilì presso il villaggio di North-Elba (New York), in una fredda vallata delle montagne di Adirondack e là, aiutato dalla sua valorosa donna e dai suoi dieci figli, si mise a dissodare il suolo e a curare il bestiame.

Ma questo contadino era al tempo stesso un cittadino. Pieno di sentimento dei suoi doveri verso la società, voleva prima di ogni altra cosa lavorare alla felicità dei suoi compatrioti, dare il proprio contributo alla grande opera del miglioramento del genere umano. Lo penetrava l’odio per l’ingiustizia e, nelle sue conversazioni, non cessava di ricordare le sofferenze dei deboli e degli oppressi. Cresceva i suoi figli alla missione di riparatori dei torti, aveva fatto dell’attaccamento eroico alla causa degli sventurati l’anima stessa della sua famiglia, il genio del suo focolare. E tuttavia, attorno a lui, nelle libere comuni degli Stati del Nord, non vedeva che indizi di prosperità. I coltivatori, suoi vicini, guadagnavano onestamente la loro sussistenza e godevano della libertà più completa, in tutti i villaggi circostanti erano aperte le scuole; su tutto il territorio federale esisteva la pace, la miseria vi era quasi sconosciuta, i progressi materiali della nazione erano senza pari nel mondo. La maggior parte degli americani, egoisticamente fieri della loro libertà, pensava che tutto andasse per il meglio nella migliore delle repubbliche.

È vero, la nazione bianca degli Stati del Nord era più felice di quanto lo fosse mai stata una nazione sulla terra, ma i neri che passavano come ombre accanto ai cittadini non erano che paria disprezzati, e negli Stati del Sud gli schiavi africani si contavano a milioni.

Là i lavoratori dei campi, invece d’essere i possessori della loro terra e dei suoi prodotti ottenuti con la loro fatica, erano al contrario bestie da soma comprate e rivendute, esseri privi del nome legale, posti fuori dalla stessa famiglia, poiché i loro figli appartenevano al padrone. «Lo schiavo, dicevano tutti i codici degli Stati del Sud, lo schiavo è una cosa e non un uomo: è un automa munito di braccia per lavorare, di spalle per sopportare il peso, di schiena per ricevere i colpi di frusta. È un oggetto che il padrone può scambiare, vendere, affittare, ipotecare, immagazzinare, giocarsi ai dadi; è niente, meno che niente. Il negro, proclamava un celebre sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, il negro non ha alcun diritto che il bianco sia tenuto a rispettare».

Sono queste le aberrazioni che rattristavano John Brown.

Dall’età di dodici anni, da quando durante un viaggio in Virginia aveva visto frustare un piccolo nero, aveva giurato a se stesso che per tutta la sua vita sarebbe stato dalla parte dei deboli contro i forti. La sua fattoria di North-Elba era diventata una delle stazioni più importanti di quella «ferrovia sotterranea» attraverso la quale gli schiavi fuggitivi degli Stati del Sud raggiungevano il Canada. John Brown li accoglieva come fratelli, dava loro viveri per il viaggio, segnava loro le tappe e, armato di carabina, li accompagnava di notte attraverso i sentieri dei boschi fino alla dimora dell’affiliato più vicino. E tuttavia Brown si rimproverava di non fare di più a favore della libertà.

Dopo aver tenuto un consiglio di famiglia, verso al fine del 1854, John Brown e i suoi figli decisero di abbandonare la terra libera e pacifica degli Stati del Nord per andare a stabilirsi in Kansas, sulla stessa frontiera del paese della schiavitù. È contemporaneamente con la carriola e il fucile che intendono lavorare alla conquista di questo nuovo territorio: coltivando da sé la propria terra, opporranno una barriera alle invasioni dei piantatori e manterranno la dignità del lavoro manuale; difendendo i loro campi con le armi, permetteranno a pacifici coloni di stabilirsi nelle terre ancora incoltivate dell’Ovest, ingrossando così la popolazione libera. Era una guerra a morte fra le due società che si scontravano sul confine del Kansas. Da un lato, arrivarono i missouriani, trascinandosi dietro le loro ciurme di schiavi; dall’altro, venivano i lavoratori yankee, che dissodavano essi stessi il suolo, aprivano scuole nelle radure appena aperte, costruivano tipografie sotto i grandi alberi della foresta. I piantatori decretarono una costituzione di Stato, facendo della schiavitù la «pietra angolare» della loro società: gli abolizionisti ne votarono un’altra, la quale affermava che la servitù è «la somma di tutte le infamie». Gli schiavisti bruciarono le capanne dei pionieri; questi fecero incursioni nel Missouri per liberare i neri. Le bande armate si incontravano sulla frontiera; per lunghi anni non smise di correre il sangue. In questa lotta implacabile fra la schiavitù e la libertà, nessun capo dei partigiani fu più audace, più fecondo di risorse, più infaticabile del «capitano» John Brown. In queste lotte continue, perse uno dei suoi nobili figli, un altro divenne pazzo; ma, alla fine, ebbe la gioia di veder trionfare gli abolizionisti. Nonostante la connivenza del presidente degli Stati Uniti con i piantatori, nonostante il tradimento del governatore e di tutta l’amministrazione locale, la popolazione libera del Kansas non cessò di crescere, gli schiavisti non si azzardavano più a superare la frontiera; l’istituzione servile, definitivamente limitata dal lato Ovest, stava per subire la sua prima grande sconfitta negli Stati Uniti.

John Brown, già prossimo alla sessantina, avrebbe potuto godere in pace del suo trionfo, avrebbe potuto coltivare quei campi, bagnati dal sangue dei suoi figli e pensare infine ad accumulare una piccola fortuna per la sua vecchiaia; ma aveva il cuore troppo nobile, amava troppo gli oppressi del Sud per non dedicare loro quel che rimaneva della sua vita. Decise di mettere in atto un progetto che nutriva da più di vent’anni, quello di trasferirsi in pieno paese nemico per emancipare in grande. Accompagnato da tre dei suoi figli, due generi e qualche uomo di cuore come lui, andò a stabilirsi in una fattoria abbandonata, situata in un paese schiavista, vicino alla città virginiana di Harper’s Ferry e per molti mesi vi fece segretamente dei preparativi militari per la sua grande opera di liberazione. Il progetto di John Brown era di impadronirsi dell’arsenale di Harper’s Ferry, molto ricco di armi di ogni specie, tagliare le linee ferroviarie principali che convergevano su quel punto, poi di lanciarsi nelle gole delle montagne per logorare senza tregua le bande organizzate dai piantatori e comparire all’improvviso un po’ qui e un po’ là, da liberatore di neri. Contava di poter reggere per anni, se ce ne fosse stato bisogno, in quella contea selvaggia degli Allegheny, fino a che infine gli schiavi, sollevatisi a migliaia, non fossero riusciti a conquistarsi la libertà a mano armata.


Élisée Reclus

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